La guerra rallenterà la transizione ecologica?
Per contrastare l'aumento dei prezzi dovuto (in parte) alla guerra in Ucraina, Italia e Unione Europea hanno approvato due piani per rendersi indipendenti già da quest'anno. Tuttavia, soprattutto il Pitesai italiano è stato oggetto di forti critiche e accusato di rallentare il percorso intrapreso per la transizione ecologica.
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La guerra tra Russia e Ucraina, che provoca ogni giorno morti e dispersi, continua ad avere conseguenze negative anche sul resto d’Europa: la solidarietà all’Ucraina si paga, sia in termini economici sia ambientali, e potrebbe far rallentare la transizione ecologica.
La rinuncia al gas russo, infatti, ha spinto il governo ad approvare il Pitesai, Piano Italiano per la prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi. Un netto dietrofront rispetto a quanto previsto dal PNRR, che punta sulle rinnovabili, e che secondo molti è una soluzione tampone e poco efficace.
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TRA PITESAI E REPowerEU
Il Piano è stato approvato negli scorsi giorni dopo un iter durato anni, ed è stato fortemente voluto dal ministro Roberto Cingolani, il quale ha anche affermato che dovrà accompagnare la transizione del sistema energetico nazionale definendo le priorità sia in ottica di decarbonizzazione, sia del fabbisogno energetico.
Si parla quindi di tre facce della sostenibilità: quella ambientale, quella sociale, e quella economica. Sono i capisaldi di un piano che permette agli operatori di 15 regioni, – ovvero tutte tranne Liguria, Toscana, Umbria, Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige e Sardegna che non hanno gas – di dare il via libera a nuove trivellazioni, sia in mare sia in terra.
Il Pitesai però riduce l’estensione dell’area di estrazione al 42,5% della terraferma e al 5% della superficie marina, senza porre limiti temporali alle concessioni esistenti.
Si richiede il rispetto dei criteri dei tre pilastri sopracitati. Lo scopo finale è quindi quello di produrre idrocarburi nazionali, ma solo su una ridotta percentuale delle concessioni attive, e in modo da non essere in antitesi con le necessità di salvaguardare la produzione nazionale e i livelli di occupazione.
Il Pitesai, infine, ha l’obiettivo di dare nuovo impulso all’economia locale con l’apertura nel medio termine di nuovi cantieri, la creazione di posti di lavoro sia per la dismissione delle strutture di coltivazione a fine vita, sa per la potenziale valorizzazione di tali strutture in chiave non estrattiva.
In altre parole, c’è almeno nelle intenzioni un occhio all’economia circolare, per una gestione intelligente delle dismissioni e dei cantieri che saranno adibiti al recupero di materie prime e ridurre le importazione dall’estero. Anche perché se così non fosse, non ci sarebbe proprio l’economia circolare.
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REPOWEREU
Il Pitesai viene approvato nello stesso momento in cui la commissione di Ursula Von Der Leyen approvava a Versailles il progetto “REPowerEU”, volto a rendere totalmente indipendente l’Unione Europea a livello energetico. Un obiettivo molto grande, visto che Bruxelles ha intenzione di ridurre di due terzi il consumo di gas russo nell’Unione già in questo 2022.
In che modo? Andando a potenziare l’energia solare ed eolica, assai presente in Spagna, Francia meridionale e Italia (la prima); Danimarca e Svezia (la seconda); ma anche migliorando l’efficienza energetica e spingendo sull’adozione delle pompe di calore.
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SERVE FARE DI PIÙ
Sia Pitesai che REPowerEU sono stati oggetto di critiche più o meno feroci. Nel caso europeo, le associazioni ambientaliste e in particolare l’EBB (European Environmental Bureau) hanno apprezzato la volontà di staccarsi dalla Russia e dalle dipendenze, ma hanno sottolineato come non sia abbastanza.
Nella loro visione, bisognerebbe potenziare ulteriormente il Fit For 55 con un forte sguardo sul clima e “sposando veramente la rivoluzione dell’energia green“, come ha dichiarato Patrick ten Brick, vicesegretario generale di EBB.
In Italia le critiche sono state più aspre. WWF, Greenpeace e Legambiente hanno definito il Pitesai, tramite un comunicato stampa congiunto, una soluzione “tampone, scellerata e insensata” alla quale ci sono diverse alternative.
Le tre associazioni propongono di non raddoppiare la produzione nazionale di gas, ma di “decuplicare la velocità di sviluppo delle fonti rinnovabili, a partire da fotovoltaico ed eolico“.
Inoltre, ci si auspica di avviare una serie di politiche di efficienza energetica nei consumi domestici e nei cicli di produzione, nonché di semplificare l’iter di autorizzazione per i nuovi impianti.
La guerra, insomma, sembra mettere a rischio il percorso intrapreso per raggiungere la neutralità carbonica entro il 2050 e, quindi, rendere l’Europa il primo continente al mondo a zero emissioni – seppur si tratterebbe “solo” di UE e Regno Unito. L’obiettivo è minato perché il conflitto ha riportato in auge il tema della geopolitica dell’energia, e della dipendenza in primis dell’Italia ma anche, per esempio, della Germania e di molti altri paesi europei.
Basti pensare che la Russia è il primo esportatore al mondo di greggio e prodotti petroliferi, e solo l’UE nel 2021 ha importato 4,3 milioni di barili al giorno e 155 miliardi di metri cubi di gas dall’enorme Repubblica Federale, come riporta l’Eurostat.
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L’APPELLO DI DRAGHI
Quello che emerge, è che se l’Unione Europea vuole davvero emergere come leader dell’energia pulita in tutto il mondo, deve fare in fretta.
Il presidente del Consiglio italiano, Mario Draghi, in un incontro recente con la presidente della Commissione europea Ursla Von Der Leyen, ha sottolineato come Italia e Unione Europa debbano “lavorare sulla diversificazione e riorganizzazione, con un’accelerazione degli investimenti nelle energie rinnovabili”. Tutto questo per raddoppiare gli stoccaggi di gas entro l’autunno.
Fondamentalmente, insomma, l’Unione Europea sembra ancora sulla strada per l’indipendenza energetica. Nei fatti, però, la dipendenza dagli altri, che come sappiamo poteva essere risolta molti anni fa, ha messo alla luce i limiti attuali di nazioni troppo legate all’energia degli altri.
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