Ricaricare l’auto elettrica in meno di 5 minuti? Sarebbe possibile con il battery swapping
Che cos’è il battery swapping, a cosa servirebbe, chi lo ha già provato e perché, soprattutto in Europa, è destinato a fallire.
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Battery swapping significa, letteralmente, scambio di batterie. È una tecnica che consiste nello scambiare appunto la batteria dell’auto elettrica scarica con una già carica. Azione che andrebbe a sostituire la ricarica, annullando così i lunghi tempi di rifornimento – uno dei maggiori limiti dei veicoli a zero emissioni.
Di battery swapping se ne parla, seppur non così diffusamente, da diversi anni. I primi esperimenti risalgono a oltre 10 anni fa. Nessuno di questi però ha avuto successo. Cerchiamo di capire perché.
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BATTERY SWAPPING, PERCHÉ POTREBBE FUNZIONARE…
Il primo a provarci fu Better Place, società fondata dall’israeliano Shai Agassi, che nel 2011 inaugurò la prima stazione di battery swapping, per poi dichiarare fallimento due anni dopo. Qualche tempo dopo ci pensò anche Tesla (la cui rete di ricarica è vastissima), che presentò a riguardo un progetto dettagliatissimo, mai realizzato. Il fallimento è la madre del successo, dicono, e sembrano in molti a crederci. Gli inizi non sono stati sfavillanti, ma di fronte al battery swap potrebbe esserci un futuro radioso.
La politica cinese
Partiamo dal continente asiatico, patria e pioniere della mobilità elettrica. La casa automobilistica NIO parlò di battery swapping per la prima volta nel 2018, promettendo la realizzazione di 1.000 stazioni di scambio. Ad oggi, le stazioni sono 125. Mentre sono 187 le stazioni di battery swapping di BAIC, il secondo più grande produttore di veicoli elettrici cinesi, sparse in 15 diverse città e dedicate a 16.000 taxi elettrici. E la società partner, tra gli altri, di Daimler e Magna, ha annunciato piani per ulteriori 3.000 stazioni di scambio sufficienti a fornire mezzo milioni di veicoli entro la fine del 2022.
In Cina il processo è agevolato dalla politica statale che mira a standardizzare dimensioni e tecnologia degli accumulatori tra tutti i costruttori del Paese. “Promuoveremo attivamente l’applicazione dimostrativa di sistemi di sostituzione della batteria e miglioreremo il sistema e la standardizzazione” ha dichiarato a Bloomberg il Ministero dell’Industria e dell’Information Technology.
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Il caso italiano
In Italia, un network nazionale di stazioni di battery swapping potrebbe essere portato da XEV, in seguito all’arrivo sul mercato dell’avanguardistica Yoyo (che abbiamo provato per 7 giorni). Nel frattempo, a mettere a punto un sistema di sistema di sostituzione rapida del pacco batterie ci ha pensato Picchio SpA.
La “Battery Swap” firmata Picchio impiega circa 2 minuti per cambiare batteria, può essere collegata a impianti fotovoltaici e costituire un punto di accumulo per scambi bidirezionali di energia. Alla stazione è integrabile un sistema di car sharing free flow composto da specifiche citycar elettriche (qui 10 modelli a confronto).
Il progetto californiano
Negli States invece c’è Ample, startup californiana già partner di Uber. Il sistema elaborato dalla giovane società prevede, oltre all’impiego di stazioni di alimentazione a ricarica ultra-rapida, anche delle stazioni di swapping per batterie ad alta capacità.
Grazie alla collaborazione con Uber e ai 70 milioni di dollari di investimenti privati, Ample ha già installato due infrastrutture a San Francisco, dove, impianti autonomi e automatizzati, permettono di sostituire il pacco batterie senza che ci sia bisogno per l’automobilista di scendere dall’auto. Il tutto per una, al momento, limitata lista di modelli compatibili.
…PERCHÉ NON FUNZIONA
Il battery swapping è la soluzione al problema della ricarica, grazie a lui, l’auto elettrica impiegherebbe per rifornirsi meno tempo di quello richiesto da una vettura a benzina. I progetti ci sono già, le infrastrutture (seppur poche) anche, e allora perché il sistema non decolla? Vi è più di una ragione, tutte valide.
Il primo ostacolo è rappresentato dai costi. Le infrastrutture di swapping hanno prezzi ben più elevati di una semplice colonnina. Per non parlare poi degli investimenti richiesti per progettare e costruire strutture robotizzate in grado di rimuovere e reinserire autonomamente le batterie dei veicoli.
Il freno più grande, però, resta la standardizzazione. In Cina, dove la politica ha il potere di influire notevolmente sull’agire dell’industria, uno standard comune per la produzione di batterie per le auto elettriche non sembra un’utopia. Ben diversa è la situazione in Occidente, con i costruttori mal disposti a rinunciare alla possibilità di distinguere le prestazioni e l’autonomia dei propri modelli elettrici da quelli dei competitor. Senza considerare infine il vantaggio che ciò concederebbe al rivale più grande, i costruttori cinesi, ben più preparati a una produzione su larga scala.