Il declino dell’industria europea e perché c’è ancora un modo per recuperare
Seduta sugli allori, l'industria automobilistica europea sta facendo la fine di Nokia e ha generato un enorme gap con americani e cinesi. Ma ha ancora le carte per tornare in carreggiata, a patto che cominci ad avere una visione comune
In questo articolo
Le avvisaglie c’erano già, ma negli ultimi due anni il declino dell’industria europea e, su tutte, dell’industria automobilistica è diventato sempre più evidente. Non più solo un caso isolato come quello della Francia: il tracollo di Volkswagen ha reso definitivamente ufficiale l’enorme gap tra il Vecchio Continente e le potenze americana e cinese.
Tanto che Mario Draghi, ex numero 1 della BCE ed ex presidente del consiglio italiano, in un lavoro durato circa un anno ha pubblicato un “report sulla competitività”, su specifica richiesta di Ursula Von Der Leyen, per capire come l’Europa può tornare competitiva.
Quello di Draghi è certamente un buono spunto, che aiuta a riflettere quali sono stati gli errori dell’Europa e delle aziende europee, che ora piangono e accusano la stessa UE, e quali sono le attuali potenzialità, quelle fiamme che possono renderci ancora competitivi. Anche se, e ci arriveremo, il vero problema è, come sempre, quello di un’industria frammentata esattamente come frammentata è l’Unione.
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IL REPORT DI MARIO DRAGHI IN BREVE
Presentato il 9 settembre, il documento di Mario Draghi, intitolato “Il Futuro della Competitività Europea”, è stato voluto dalla presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen.
Con le sue 400 pagine, il rapporto propone un approccio radicale per rafforzare l’integrazione economica dell’Unione, colmando il divario tecnologico con gli Stati Uniti, armonizzando la decarbonizzazione con la competitività industriale e migliorando la sicurezza economica.
Quello che emerge dal rapporto, però, dà ragione a Luca De Meo, CEO di Renault e Presidente di ACEA: ovvero che solo l’integrazione tra i Paesi europei e le loro industrie può fermare il declino europeo.
Draghi sottolinea come la dipendenza passata da energia a basso costo proveniente dalla Russia, l’accesso ai mercati cinesi e la protezione degli Stati Uniti non siano più scontati.
A ciò si aggiunge il confronto con il recente rapporto di Enrico Letta, che proponeva una riforma del mercato interno europeo, ma che non raggiungeva l’ampio respiro strategico e ambizioso del documento di Draghi. Quest’ultimo, nello specifico, si concentra su:
- Innovazione, uno dei principali settori su cui l’Europa deve recuperare terreno. Pur possedendo un forte potenziale innovativo, l’Unione Europea vede oltre un terzo delle sue aziende “unicorno” trasferirsi all’estero, principalmente negli Stati Uniti, a causa di ostacoli regolatori e finanziari. Tra le misure proposte, Draghi suggerisce la creazione di un’Agenzia Europea per i Progetti di Ricerca Avanzata, incentivi per i capitali di rischio e il sostegno alla Banca Europea per gli Investimenti. Inoltre, il rapporto promuove un rafforzamento della ricerca scientifica e un investimento continuo nelle competenze dei lavoratori attraverso programmi di apprendimento permanente.
- Decarbonizzazione-Competitività. Con costi energetici significativamente più alti rispetto agli Stati Uniti, l’Europa rischia di perdere terreno nella competitività industriale, soprattutto se la transizione verde viene condotta con una dipendenza eccessiva da tecnologie cinesi sovvenzionate. Draghi vede nella decarbonizzazione un’opportunità per la competitività, ma solo se gestita con attenzione. Propone quindi una riforma del mercato elettrico europeo per abbassare i costi energetici a vantaggio dei consumatori e un sostegno alle politiche industriali per le tecnologie verdi. Il rapporto punta anche sul rafforzamento del settore delle energie pulite, delle materie prime critiche e dell’automotive, proponendo politiche specifiche per questi comparti strategici.
- Difesa. Draghi valuta molto duramente il settore della difesa in Europa, definendolo, al pari dell’automotive, come frammentato e poco competitivo. Draghi auspica una maggiore integrazione e un’autorità per la Difesa Europea, capace di coordinare gli acquisti per tutti i Paesi membri e sfruttare le economie di scala. Questa strategia non solo migliorerebbe l’efficienza del settore, ma contribuirebbe anche a ridurre la dipendenza da fornitori esteri, in particolare dagli Stati Uniti. La proposta prevede un principio di “preferenza europea” per gli acquisti, favorendo l’industria della difesa interna.
- Sicurezza Economica e Autonomia Strategica. Con la crescente influenza economica di Paesi come la Cina, l’UE deve ridurre la propria vulnerabilità alla coercizione economica esterna. Aumentare la spesa per la difesa, rendere autonoma l’industria difensiva e sviluppare una politica per assicurarsi l’approvvigionamento di minerali critici sono passi essenziali per proteggere la sovranità economica. Draghi propone anche accordi commerciali con Paesi non membri e una politica economica estera con investimenti congiunti basati sul grande mercato interno europeo.
Per realizzare le sue proposte, Draghi stima che saranno necessari investimenti aggiuntivi di oltre 800 miliardi di euro all’anno, corrispondenti al 5% del PIL dell’UE. Il finanziamento di questo ambizioso piano richiederà una maggiore mobilitazione di risorse private e pubbliche, con il completamento dell’Unione Bancaria e lo sviluppo dei mercati dei capitali europei.
Draghi suggerisce inoltre di finanziare i progetti tramite debito comune europeo, creando un asset sicuro per gli investitori, una proposta controversa ma fondamentale per sostenere investimenti a lungo termine. A livello regolamentare, Draghi chiede una semplificazione delle norme, in particolare per le piccole e medie imprese, e una pausa regolatoria per consentire al mercato di adattarsi ai cambiamenti.
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IL DECLINO DELL’EUROPA
Come detto, il report arriva nel momento in cui tutti, finalmente, si sono accorti che l’Europa nell’ultimo ventennio è tutt’altro che andata avanti. I dati pubblicati da Eurostat il 13 settembre 2024 mostrano un quadro preoccupante per le principali economie europee.
La produzione industriale in Germania, Francia, Italia e Spagna – le quattro maggiori economie del continente – ha subito un calo annuo, toccando sia i beni di consumo durevoli che quelli strumentali. Tra luglio 2023 e luglio 2024, la produzione industriale nella zona euro è diminuita del 2,2%, mentre nell’intera Unione Europea la riduzione è stata dell’1,7%. Tuttavia, alcune economie hanno registrato cali molto più drammatici, come l’Ungheria (-6,4%), la Germania (-5,5%), l’Italia (-3,3%) e la Francia (-2,3%).
Un numero ristretto di paesi ha invece mostrato una crescita, tra cui Danimarca (+19,8% – dato che va preso con le pinze, visto che è trainato principalmente da Novo Nordisk), Grecia (+10,8%) e Finlandia (+6,4%). Questo andamento negativo riflette la difficoltà dell’industria europea nel competere con il mercato statunitense e asiatico, specialmente a causa dei costi energetici elevati e della carenza di manodopera qualificata.
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IL COSTO DELLA COMPETITIVITÀ E GLI ERRORI
Uno dei principali ostacoli per la competitività industriale europea è rappresentato dall’aumento dei prezzi dell’energia. Secondo Raphaël Trotignon, responsabile dell’unità energia-clima dell’istituto economico Rexecode, i costi energetici medi nell’UE sono quasi il doppio rispetto a quelli di USA e Cina.
Questa differenza penalizza gravemente la produttività industriale europea e si configura come un importante svantaggio strutturale. I paesi dell’Europa centrale, come Romania, Repubblica Ceca e Bulgaria, fortemente dipendenti dall’industria automobilistica tedesca, risentono particolarmente di questa crisi.
In Francia, i dati economici sono altrettanto deludenti, con pessimi indicatori di crescita pro capite, bilancia commerciale negativa e deficit di finanza pubblica in aumento. Sebbene alcuni anni fa fossero stati avviati progetti di reindustrializzazione, questi hanno subito una brusca frenata negli ultimi mesi. Il nuovo governo del Primo Ministro Michel Barnier e l’arrivo del nuovo Ministro delle Finanze Antoine Armand e del Ministro delegato per l’Industria Marc Ferracci dovranno ora affrontare questa sfida.
Tolta la Francia, che ha il suo nucleare, e tolti i paesi Nordici che sono molto avanti con le rinnovabili (la Danimarca è leader nell’energia eolica e nella produzione di pale eoliche, tanto da rifornire anche il Regno Unito), l’Europa paga le sue politiche incoscienti, che l’hanno portata a ritenere una buona idea comprare l’energia dalla Russia e da altri Paesi vicini anziché attivare una vera politica energetica.
E del resto, non è solo l’energia che è stata delocalizzata: tutto, nel corso degli altri, è stato spostato fuori, principalmente per ridurre i costi. I risultati di questa globalizzazione incontrollata si vedono tutti ogni volta che qualcuno blocca il canale di Suez, come in questo periodo; si sono visti con la crisi dei chip; li vediamo ora che con la Russia è scoppiata una guerra, anche commerciale. E che, a livello energetico, oltre ad aver fatto impennare i costi, hanno portato paesi come la Germania a riaprire le centrali a carbone.
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L’EFFETTO NOKIA
Il declino industriale europeo è principalmente un declino automobilistico perché, che ci piaccia o no, l’automotive è una delle più importanti, se non la più importante. E quella che ha visto il crollo più significativo. E questo perché ha smesso di innovare in quasi tutti gli ambiti, comportandosi esattamente come Nokia e le altre ex big-tech europee.
Quella dell’informatica e della telefonia è un’altra sfida persa dall’UE, ancor prima di quella sull’auto. Con il telefono inventato in Europa, addirittura da un italiano, nel corso di tutta la seconda parte del XX secolo aziende europee come Siemens, Ericsson e soprattutto Nokia hanno dominato la scena globale con i loro dispositivi, con solo l’americana Motorola a potersi definire un vero competitor.
Già a inizio XXI secolo Siemens era fuori dai giochi, Ericsson aveva fuso la divisione mobile con Sony dando vita a Sony-Ericsson (con baricentro più spostato a Tokyo che a Stoccolma), mentre Nokia non si accorgeva degli scricchiolii alla sua leadership.
Oggi il settore informatico, e quello degli smartphone, è dato più dal software che dall’hardware – che pure è importante. Nokia questo non l’ha capito: aveva per le mani Symbian, il primo, vero OS mobile della storia, ma non lo ha sviluppato a sufficienza.
E quando è arrivato iPhone, nel 2007, mentre gli altri correvano ai ripari, Nokia a lungo si è ostinata con i suoi telefoni pieni di tasti, ritenendo che la clientela non volesse qualcosa di simile ad iPhone. Nel giro di appena due anni, Nokia entrò in crisi, e nel 2012, vicina alla bancarotta, fu comprata da Microsoft, cosa che segnò la fine della leadership europea del settore. Oggi, tolta Apple, il mercato degli smartphone è dominato da produttori asiatici, in particolare Samsung e i cinesi Xiaomi e Oppo.
Nell’auto è successa la stessa cosa. Quando Tesla ha sconvolto il mercato, la maggior parte della filiera ha creduto che la scossa riguardasse solo le auto elettriche. Ma questo è riduttivo: Tesla non ha dato una spinta solo all’elettrificazione con un prodotto ben riuscito ed efficiente. Tesla ha dato il vita all’era dei Software-Defined-Vehicle (SDVs, ne abbiamo parlato qui), cioè i veicoli controllati dal software che, come i computer o i telefoni, potessero aggiornarsi continuamente proprio grazie al loro sistema.
E lo abbiamo visto perché tutti i produttori, nessuno escluso, hanno imitato o spudoratamente copiato Tesla nel layout degli interni, concentrandosi a riproporre quegli odiosi tablettoni touch al centro della plancia, senza però focalizzarsi sul resto.
A lungo, infatti, Volkswagen, le ex FCA e PSA e oggi Stellantis, Renault, hanno continuato a concepire l’auto come negli anni Ottanta, senza dare minimamente conto alla direzione che l’industria stava prendendo, cosa che invece i cinesi hanno capito benissimo. Se peccano sui loro infotainment troppo giocosi, oggi le piattaforme di Nio, Xpeng, Geely, riescono a rivaleggiare con Tesla.
Gli europei non possono dire lo stesso. Quando Volkswagen ha riorganizzato il suo management, lo ha fatto principalmente per il software scadente e arretrato di tutte le vetture costruite su piattaforma MEB. Lo stesso si può dire di Stellantis, la cui promessa di aggiornamenti OTA è praticamente nulla, e sono passati più di 10 anni da quando Tesla è salita alla ribalta.
Non solo: da una parte zero investimenti sul software e su piattaforme di nuova generazione; dall’altra nessun investimento sull’elettrico se non dopo lo scandalo Dieselgate, che ha di fatto obbligato i produttori ad andare verso quella direzione. Ma era già tardi.
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LE SOLUZIONI INDIVIDUATE
Un’opportunità di rilancio per l’industria europea potrebbe venire dalla decarbonizzazione. Secondo Neil Makaroff, direttore delle Prospettive Strategiche, una strategia industriale europea combinata con l’obiettivo di ridurre le emissioni di gas serra di almeno il 90% entro il 2040 potrebbe rappresentare un nuovo inizio, riportando l’UE sulla mappa dei poteri industriali globali. Tuttavia, per raggiungere questo traguardo, sarà necessario aumentare drasticamente gli investimenti nel settore industriale.
Nel 2023, l’Europa rappresentava solo il 6,7% degli investimenti industriali globali, contro il 54,5% dell’Asia e il 28,5% degli Stati Uniti. Il rapporto Draghi stima che le necessità di investimento per l’UE ammontino a circa 800 miliardi di euro l’anno. Senza un forte impegno economico, il rischio è che il progetto di reindustrializzazione resti un miraggio.
La Cina, che già controlla il 60% delle catene del valore per le tecnologie “verdi” necessarie alla transizione energetica, continua a espandere la sua supremazia globale. Grazie a una capacità produttiva che supera di gran lunga il proprio fabbisogno, la Cina domina mercati chiave come quello dei pannelli solari, delle batterie elettriche e delle turbine eoliche. Negli Stati Uniti, l’Inflation Reduction Act, voluto dall’amministrazione Biden, ha già attratto oltre 240 miliardi di dollari di investimenti e creato quasi 200.000 nuovi posti di lavoro.
In risposta a questa concorrenza, il piano europeo Net-Zero Industry Act, approvato a maggio 2024, mira a produrre almeno il 40% delle tecnologie necessarie per la decarbonizzazione industriale sul suolo europeo. Ma per raggiungere questo obiettivo saranno necessari ingenti investimenti e meccanismi di protezione contro i prodotti cinesi che non rispettano gli stessi standard ambientali e sociali.
Tra i principali compiti della nuova Commissione Europea, presentata da Ursula von der Leyen il 17 settembre, c’è l’elaborazione di un nuovo “patto industriale verde.” Tuttavia, non è chiaro se questo progetto riceverà la priorità necessaria nel nuovo mandato di Bruxelles o se sarà ostacolato dall’influenza crescente dell’estrema destra euroscettica. In vista delle elezioni parlamentari del 2025, la Germania – interessata a preservare la propria disciplina di bilancio e i rapporti commerciali con la Cina – non sembra particolarmente incline a sostenere investimenti congiunti.
Il tempo, però, stringe. Il 16 settembre, la multinazionale americana Intel ha annunciato la sospensione della costruzione dei suoi stabilimenti per la produzione di chip in Europa. L’azienda aveva già previsto un piano decennale di investimenti di 80 miliardi di euro per il 2022, ma ha deciso di interrompere il progetto a causa di un ecosistema europeo poco favorevole, continuando invece la costruzione di nuove fabbriche in Arizona e Malesia. Questa notizia rappresenta un duro colpo per l’UE e il suo Chips Act, un regolamento firmato nel 2023 che mira a produrre il 20% dei semiconduttori mondiali entro il 2030.
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IL MATERIALE C’È
Eppure, pur essendosi seduta sugli allori, l’Europa ha le sue potenzialità, in tutti i settori. L’industria europea ha ancora i soldi per comprarsi le startup cinesi in bancarotta e le loro tecnologie, cosa in effetti già successa: Volkswagen ha acquisito gran parte di Xpeng e intende sfruttarne il software ben più evoluto; così come Stellantis ha fatto, in modo forse meno furbo, con Leapmotor. Volvo invece ha avuto la fortuna che Geely si sia più volvizzato, spostando tutto in Svezia e dandole per la prima volta le risorse necessarie per investire. E, infatti, ad oggi Volvo e Polestar sono le uniche in grado di rivaleggiare con Tesla per completezza ed efficienza del loro software e dei loro prodotti (pur usando le batterie della cinese CATL).
Ma anche lato energia le potenzialità ci sono tutte. La citata Danimarca è leader nell’eolico, e la sua Vestas già ora rifornisce Regno Unito, Svezia, Germania di pale eoliche per i loro grandi progetti. Spagna e Italia sono invece molto avanti sull’energia solare e, anzi, il Bel Paese, se lasciasse meno spazio a polemiche sterili, potrebbe avere anche una grande forza sull’eolico, cosa che aiuterebbe tanto nella decarbonizzazione quanto nell’indipendenza energetica.
Infine, le batterie e le materie prime. Su quest’ultimo punto, ci sono Svezia e soprattutto Norvegia. Oslo ha già deciso di voler passare da esportatore di petrolio a esportatore di cobalto e altre terre rare utili alle batterie, con un piano di attività minerarie sottomarine molto discutibile, ma che comunque potrebbe essere un primo passo per togliere quote di mercato alla Cina. Inoltre, l’UE – come avevamo visto insieme ad Eurelectric – ha piani per l’estrazione e l’approvvigionamento in casa di queste materie.
In Svezia c’è Northvolt, la prima, vera gigafactory europea che è già in crisi. La Svezia ha tante materie prime nel suo sottosuolo, ma Northvolt fatica a consegnare gli ordini principalmente per mancanza di fondi. Manca anche il supporto dello Stato svedese (e del resto Stoccolma soffre economicamente, come la Germania), e non ha alle spalle un’economia grande e solida come quella cinese o quella americana. Ma se ben sfruttata, Northvolt potrebbe davvero fare la svolta, spostando i produttori europei a rifornirsi di batterie da lei, anziché da CATL.
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UN’UNIONE FRAMMENTATA
Alla fine, però, si torna sempre lì, come avevamo visto per la guida autonoma: la vera debolezza dell’Unione è la sua natura, che la rende più di una semplice unione sovranazionale, ma non ancora uno Stato in grado di finanziare le sue industrie come invece succede in USA e Cina. Lo dice Draghi, lo dice De Meo, e non c’è stato esempio più evidente del Salone di Parigi.
Alla kermesse francese, sono stati presenti De Meo stesso, Carlos Tavares e Oliver Zipse, Amministratore Delegato di BMW. Curiosamente, le tre aziende sotto i riflettori perché si crede che si uniranno. Ad ogni modo, al momento, i loro tre leader hanno espresso visioni diverse.
De Meo, per esempio, critica l’UE, accusandola di non supportare le sue industrie come invece fanno Washington e Pechino, e torna di nuovo a chiedere coesione, a formare un Airbus dell’automobile. Oliver Zipse ha una visione tutto sommato vicina al numero uno di Renault, auspicando un piano industriale chiaro ma improntato alla neutralità tecnologica. Tavares, invece, richiede stabilità normativa, affermando che “non è il momento di cambiare rotta”.
Su tutti, comunque, De Meo ha la visione più forte. Anche perché confermata soprattutto dalla Cina: per rendersi più competitiva, per esempio, è nata la Battery Swap Alliance voluta da Nio e comprendente la stragrande maggioranza dei produttori cinesi, per una standardizzazione delle batterie, che aiuterebbe non poco. Al contrario, in Europa Volkswagen ha respinto la richiesta di De Meo per lavorare a una piattaforma comune, confermando che l’industria europea è ben lontana da quella coesione voluta dal presidente di ACEA, e da Draghi stesso. E che però la salverebbe.
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